C’È BISOGNO DI CURE PALLIATIVE IN RSA,

DI MARINA SOZZI

Altre volte su questo blog ci siamo chiesti come muoiano i nostri anziani, soprattutto quando sono ricoverati in RSA (Residenze sanitarie assistenziali). O meglio, quando abbiano voluto o dovuto eleggere come loro “casa” una di queste strutture, perché non più del tutto autosufficienti o perché affetti da una forma di demenza.  
Ora, negli ultimi mesi ho avuto modo di seguire (perché coordinato da me) un progetto di formazione in cure palliative in quattro RSA dell’area metropolitana torinese. Si è trattato di un progetto simile al progetto VELA, portato avanti già anni fa da Franco Toscani in Lombardia.                                                                                                       
Come sono innanzitutto organizzate le RSA?  
Nelle Residenze ci sono in genere moltissimi OSS (operatori sociosanitari, che fanno un corso biennale per prepararsi alla professione), alcuni infermieri, pochissimi o nessun medico (talvolta, a parte il direttore sanitario, i medici di riferimento sono solo i medici di medicina generale che raramente, o solo per ragioni di emergenza, si recano in struttura a vedere i loro pazienti). Gli OSS sono circa da 4 a 7 volte più numerosi degli infermieri. Non dappertutto è previsto uno psicologo nell’organico, o qualche fisioterapista. Gli OSS svolgono quindi buona parte del lavoro di cura, sono in maggioranza stranieri, sono pagati poco e in genere non prendono parte alle decisioni di carattere sanitario che riguardano i pazienti. Questo accade per ragioni gerarchiche, nonostante il fatto che gli OSS siano le figure maggiormente a contatto con i residenti, e che abbiano quindi un’idea piuttosto precisa delle condizioni di salute di ciascuno e del loro eventuale peggioramento.

In questa situazione cosa accade quando un paziente si aggrava, perde autonomia, comincia a mangiare meno, a non alzarsi dal letto? Raramente i familiari vengono avvertiti, e preparati alla realtà del declino, e all’avvicinamento del loro congiunto alla fine della vita.Accade ancora troppo frequentemente che, ad esempio, quando una persona non riesce più a deglutire (è un decorso frequente nelle forme di demenza) venga inviata in ospedale e si passi all’alimentazione artificiale, rischiando di aggiungere sofferenza a sofferenza. Le evidenze scientifiche dicono che in quei casi l’alimentazione artificiale non contribuisce al benessere della persona (quindi non migliora la qualità della sua vita) e neppure aumenta la quantità di vita residua. Inviando al Pronto Soccorso, tuttavia, si rimanda comunque il “problema” (e la responsabilità) ad altri, perché nessuno in RSA è pronto a prendersela.               

 “E’ la famiglia che ci chiede di mandare il parente in Pronto soccorso”, dicono sovente gli operatori. E certamente è più probabile che ci sia questa richiesta in un contesto in cui le famiglie non sono state adeguatamente preparate a quello che sarebbe accaduto. Se avessero saputo per tempo che l’evoluzione della demenza avrebbe portato il loro caro a non poter più mangiare (e che quello sarebbe stato anche un segno dell’avvicinarsi della fine), forse avrebbero potuto accettarlo ed evitare inutili e gravosi spostamenti e sofferenze a chi sta morendo. 
L’altro grave esempio delle conseguenze di una preparazione carente delle équipe curanti in RSA è la sottovalutazione del dolore (e quindi il suo mancato trattamento) nelle persone con decadimento cognitivo, che non sanno quindi spiegare dove hanno male e come questo dolore si presenti. È frequente che vengano fraintesi l’agitazione, i lamenti, il pianto, da parte di operatori che interpretano questi sintomi come dovuti al declino cognitivo, mentre sovente sono segni di un dolore non controllato.
Nelle RSA la permanenza media degli ospiti è di poco più di 12 mesi, ed è chiaro che le persone che vi abitano si trovano nell’ultimo miglio della loro vita. Alcuni vivono in RSA meno, molto meno di 12 mesi. Come è possibile quindi che non si rifletta sull’esigenza di garantire una buona qualità della fine della vita in questi luoghi (dove tutti i residenti, o quasi tutti, concludono in effetti la loro vita?)Ciò che manca, insomma, nelle strutture per anziani, è la sensibilità palliativa, l’approccio palliativo, l’attenzione per la sofferenza e il disagio, le competenze comunicative con gli ospiti e con le famiglie. Come fare dunque a sollecitare questa attenzione e questo approccio in tutti coloro che lavorano in queste strutture, così da garantire una vita e una morte dignitosa a chi ci abita? La prima cosa da insegnare al personale è a porsi quella che è stata definita la “domanda sorprendente”, che consiste nel chiedersi, per ogni paziente, o ospite (nel caso delle RSA): “Sarei sorpreso se questa persona morisse nel giro di sei mesi o un anno?”. Se la risposta è “No, non sarei sorpreso”, quello è già il momento per dare inizio a un approccio palliativo.
Le prossime sfide, per le cure palliative (che avranno finalmente una scuola di specialità per i medici), sono: 1) ampliare i luoghi di cura in cui saranno disponibili cure palliative (quindi anche gli ospedali e, appunto, le RSA); e 2) fare in modo che le cure palliative siano applicabili a ogni patologia (e gli anziani ricoverati in RSA spesso sono persone molto fragili, portatrici di più di una patologia cronica e degenerativa).Certamente, formare gli operatori delle RSA è di primaria importanza, sia per le persone che vi risiedono, sia per i loro familiari, spesso carichi di sensi di colpa per non riuscire a curare a casa il loro caro; sia inoltre per i curanti, affaticati sia fisicamente sia emotivamente, a maggior ragione con il Covid (e infatti un veloce turn over degli operatori in queste strutture è usuale). 
Ma occorre anche che i decisori (come si dice con un brutto termine) richiedano alle RSA la competenza già acquisita in cure palliative di base per accreditare le strutture. In questo modo l’adeguata formazione non sarebbe iniziativa singola di alcuni direttori sanitari particolarmente sensibili e lungimiranti, ma la norma.Avete esperienze che riguardano la cura in RSA? Cosa pensate dell’auspicio che vi sia una formazione alle cure palliative in queste strutture per anziani?   
Lettere alla comunita di san Rocco. Fredo Olivero 2022.1