Testo da conferenze e scritti di Alberto Maggi, Biblista
Redazione di Fredo Olivero
LE RADICI CRISTIANE  DELL’ITALIA


Alberto Maggi, biblista, si rivolge a chi “rivendica le radici cristiane della nostra civiltà guardando a un passato più ideale che reale, a una società dove l’ordine era garantito dall’obbedienza e dalla sottomissione“. Ma “se queste sono le radici, c’è solo da vergognarsene, e occorre estirparle”. Anche perché “il disegno del Signore non è quello di una società tutta cristiana, utopia irrealizzabile e neanche auspicabile…”. E ancora:  “Gesù non invita i suoi a occupare o sostituirsi alle strutture sulle quali si regge la società, ma di infiltrarsi, come il sale e come il lievito, per dare sapore, per dilatarle, per renderle sempre più umane e attente ai bisogni e alle sofferenze degli uomini”  Molti di quelli che rivendicano le radici cristiane della nostra civiltà guardando a un passato più ideale che reale, a una società cristiana dove l’ordine era garantito dall’obbedienza e dalla sottomissione, della moglie e dei figli al capofamiglia, dei sudditi ai governanti e dei fedeli alle autorità religiose, in una gerarchia di valori indiscussa, da tutti accettata o subita. Costoro sono i nostalgici di un passato, quando le chiese erano piene di cattolici che assistevano alla messa domenicale perché precettati (l’unica alternativa possibile era commettere peccato mortale e finire all’inferno per tutta l’eternità). Alcuni rimpiangono la famiglia cattolica, quando l’educazione religiosa alle spose le invitava ad accettare con cristiana rassegnazione anche i maltrattamenti da parte del coniuge (ancora negli anni ’60 era in voga un manuale della sposa cattolica, dove tra i doveri delle mogli si elencava quello di obbedire al marito come a un superiore, tacendo quando lo si vedeva alterato, ed essere sottomessa alla suocera) .02.2018 Altri vorrebbero ritornasse quel tempo in cui i treni viaggiavano in orario, non c’era la delinquenza, e si poteva lasciare la chiave sulla porta di casa, in un ordine sociale garantito dall’obbedienza all’indiscusso capo, un uomo sempre inviato dalla Provvidenza, in risposta al bisogno atavico degli uomini di barattare la propria libertà con la sicurezza che offre la sottomissione acritica al potente di turno.                      
Le radici di questa società saranno state anche cristiane, ma i frutti evidentemente no, e in questo clima di soggezione a ogni forma di potere, la libertà era vista come uno spauracchio, una minaccia all’ordine costituito dai potenti e sempre sostenuto e benedetto dalla Chiesa. Obbedienza, sottomissione sono vocaboli assenti nel linguaggio di Gesù, il quale invece di rifarsi al passato, alle radici, invita a osservare i frutti (“dai loro frutti li riconoscerete”, Mt 7,20). Per Gesù “ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi” (Mt 7,17). L’albero che non produce frutti buoni è immagine di quanti non hanno cambiato vita a contatto con il suo messaggio; oppure hanno simulato tale cambiamento e continuano ad essere complici dell’ingiustizia della società. Più che di radici bisognerebbe parlare di catene. Questa civiltà, tanto cristiana e tanto cattolica, all’insegna dell’ordine e dell’obbedienza, ha da sempre temuto la libertà, vista più come una minaccia che come un dono del Signore (Gv 8,32-36): “Cristo ci ha liberati per la libertà!” (Gal 5,1). E la Chiesa, anziché promuovere la dignità umana e il diritto alla libertà, cercò, finché le fu possibile, di sopprimerli, basta pensare a Gregorio XVI, il papa che nell’Enciclica Mirari vos, nel 1832, arrivò a parlare di quella “perversa opinione…errore velenosissimo” [pestilentissimo error] o piuttosto delirio, che debbasi ammettere e garantire per ciascuno la libertà di coscienza” (Denz. 2730). C’è da chiedersi quale frutto perverso queste radici cristiane possano aver generato, se papi come Niccolò V, nella bolla Dum Diversas (1452), ribadita poi con la bolla Romanus Pontifex nel 1454, arrivò ad autorizzare i regnanti cattolici a “invadere e conquistare regni, ducati, contee, principati; come pure altri domini, terre, luoghi, villaggi, campi, possedimenti e beni di questo genere a qualunque re o principe essi appartengano e di ridurre in schiavitù i loro abitanti”. Forte della sua autorità il papa, a difesa delle sue parole, conclude la bolla con questa minaccia: “Se qualcuno oserà attaccarla, sappia di stare per incorrere nello sdegno di Dio onnipotente e dei beati apostoli Pietro e Paolo”. Queste aberranti e disumane dichiarazioni furono purtroppo confermate e convalidate dai pontefici successivi, sempre in nome di Cristo, naturalmente. Se queste sono le radici c’è solo da vergognarsene, e occorre estirparle, liberando il terreno sassoso dalle pietre che non hanno permesso il loro sviluppo e dai rovi che le hanno soffocate e tornare a seminare a loro posto la buona notizia di Gesù (Mt 13,3-23), il cui progetto non è volto a conservare il mondo così com’è, ma a cambiarlo (“Convertitevi!”, Mt 4,17). Il disegno del Signore non è quello di una società tutta cristiana, utopia irrealizzabile e neanche auspicabile (il disastro di ogni teocrazia è evidente), ma Gesù chiede ai suoi seguitori di influire positivamente nel mondo, e per questo usa immagini come il sale e il lievito (Mt 5,13; 13,33), elementi che anche in minima quantità possono influire nella massa liberando tutte le loro potenzialità. Gesù non invita i suoi a occupare o sostituirsi alle strutture sulle quali si regge la società, ma di infiltrarsi, come il sale e come il lievito, per dare sapore, per dilatarle, per renderle sempre più umane e attente ai bisogni e alle sofferenze degli uomini. Per questo la fedeltà al Cristo non può essere rivendicata a parole (“Non chiunque mi dice: “Signore, Signore…”, Mt 7,21), ma solo nei fatti (“Colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli”, Mt 7,21). Non sono gli attestati di ortodossia la garanzia di vita cristiana, ma un comportamento il cui unico distintivo è l’amore; non basta rivendicare la sacralità del vangelo, ma è necessario che il credente diventi la buona notizia per ogni persona che si incontra. I cristiani non si riconoscono per i distintivi religiosi ostentati (“Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente: allargano i loro filatteri e allungano le frange”, Mt 23,5), ma per l’umanità che li rende attenti, sensibili e solleciti ai bisogni e necessità degli emarginati e di tutti gli esclusi della società: “Ero straniero e mi avete accolto… ero in carcere e siete venuti a trovarmi” (Mt 25,35). Chi non muore si rivede