A UN ANNO DALLO SCOPPIO DELLA GUERRA IN UCRAINA, UNA RIFLESSIONE DI DON VIRGINIO COLMEGNA SUL TEMA DELLA PACE.

È passato un anno dallo scoppio della guerra in Ucraina, il 24 febbraio 2022. Un anno è un tempo lunghissimo, in cui ci sono state tante vittime e distruzioni. Ma le notizie della guerra sono ormai fredda cronaca quotidiana e l’opinione pubblica è come assuefatta. Assuefazione che rischia di farci perdere quell’interrogativo, quell’inquietudine, quella sofferenza interiore, anche, che sono parte della nostra umanità, che è carne viva.

Certamente questo conflitto ha delle gravi conseguenze economiche, soprattutto per chi era già in difficoltà, ma quello che non si riesce più ad avvertire è che c’è bisogno di uno sguardo di solidarietà aperto alla mondialità – come ci invitano a fare le encicliche “Laudato si’” e “Fratelli tutti” di Papa Francesco – che sappia vedere le storie delle persone. Se invece ci si chiude nell’individualismo, allora certo, vediamo solo le conseguenze economiche. Occorre quindi andare oltre la cronaca subita e provare ad aprire spazi di riflessione interiore e comunitaria su quello che significa realmente la guerra.

LA NECESSITÀ DI UNA TREGUA

In questo anno il cosiddetto “popolo della pace” è stato spesso tacciato di stare dalla parte dell’aggressore o di volere la resa dell’Ucraina. Sgomberiamo subito il campo: chiedere la pace non è un’alternativa alla condanna senza se e senza ma dell’aggressore, ma significa immettere nel discorso pubblico un’energia contraria alla logica ferale della violenza. La domanda di pace arriva dalla gente comune, quella che non ha potere, che è la stragrande maggioranza dell’umanità. Ma chi chiede la pace viene subito marginalizzato e bollato come “pacifista”, una parola che sembra aver assunto un connotato negativo, come se fossimo ingenui utopisti. La stessa voce di Papa Francesco – una delle poche che si spende per la pace, mentre il resto della politica parla solo di quali e quanti armamenti fornire all’Ucraina – rischia di essere isolata, accantonata come testimonianza forse necessaria, ma irrilevante.

Sono quindi molto preoccupato, perché c’è quasi una rassegnazione alla logica del conflitto armato, anche nel linguaggio, e sta vincendo l’idea che la pace si fa con la guerra, con la continua corsa agli armamenti e questo non è possibile. Invece, dopo un anno di sofferenze, per noi, che ogni giorno guardiamo in faccia le persone vittime della guerra e le tragedie che si portano dentro, è necessario chiedere almeno una tregua, lo stop ai bombardamenti e l’avvio di un’iniziativa diplomatica.

TORNIAMO A PARLARE IL LINGUAGGIO DELLA PACE

E allora come può, la società civile contraria alla guerra, farsi ascoltare? Dobbiamo innanzitutto “rialfabetizzarci” al linguaggio della pace e della non violenza, portandolo nella quotidianità del vivere, facendolo arrivare ai piccoli e a chi, a ogni età, consuma notizie. È poi necessario che questa energia pacifica entri anche nei processi sociali e formativi a tutti i livelli, fino alle classi dirigenti non solo culturali e politiche, ma anche economiche. Questo, per chi vive il tema dell’ospitalità, è un richiamo imprescindibile, perché non possiamo rimanere solo quelli beneamati, quelli che fanno la “protezione civile” (e guai se non lo facessimo, perché se c’è un’urgenza a cui rispondere lo facciamo e con passione). Ma dobbiamo andare oltre il semplice aiuto e assumerci la responsabilità politica e storica di compiere questo annuncio di pace, valorizzando la storia e il patrimonio politico e culturale della non violenza, che non è utopico, astratto, ingenuo, ma può incidere profondamente nella realtà.

Nelle prime settimane di guerra c’è stata una grande mobilitazione in favore dei profughi ucraini e anche da parte delle istituzioni europee c’è stata un’apertura senza precedenti, con l’applicazione della direttiva per la protezione temporanea. Un atto doveroso e positivo, che tuttavia deve far riflettere. Sarebbe necessario venisse esteso a tutte le persone in fuga da altre guerre e situazioni di pericolo, per far sì che non siano più “invisibili” o oggetto di respingimenti. L’accoglienza dei profughi ucraini ci insegna, infatti, che il tema migratorio si può affrontare nel rispetto dei diritti umani e della dignità delle persone, mettendole al centro e agendo come comunità non chiusa su sé stessa in difesa dei propri confini, ma come comunità inclusiva, che vive di gesti di ospitalità che segnano scelte culturali e politiche profonde.

UNA GIORNATA DI PREGHIERA E RIFLESSIONE

Per meditare su questo triste anniversario, la Casa della Carità aderisce alla marcia straordinaria per la pace del 24 febbraio, condividendo l’appello dei promotori alla politica. E poi vogliamo vivere questo triste anniversario nell’intensità della preghiera, anche ecumenica, raccogliendo gli incessanti inviti di Papa Francesco, affinché la forza della spiritualità penetri nell’operosità dell’accoglienza. Nel suo primo viaggio pastorale a Lampedusa, di fronte al dramma delle morti in mare, il pontefice disse: «Lasciateci piangere». Ecco, per quanto mi riguarda vivrò questa dimensione interiore con una giornata di digiuno e invito chi vuole ad unirsi a me. E mi auguro davvero che questa triste giornata possa essere capace di interrogarci e di far entrare dentro di noi i volti e le storie di chi soffre per questo e per tutti i conflitti del mondo.

CHIESA SAN ROCCO 21.2.2023 Redazione Fredo Olivero.