Ortensio Da Spinetoli 24/07/2017

Il centro della vita della  Chiesa è  l’Eucarestia

 

L’ultima cena. L’«eucarestia» è evento reale o rito commemorativo?

Tutte queste «innovazioni», forse meglio «distorsioni» sulla persona e sulla missione di Gesù si ritrovano come in sintesi nella ricostruzione o reinterpretazione che comincia subito ad avere la cena d’addio che egli aveva tenuto con i suoi alla vigilia della morte. Il convito pasquale era forse stato preceduto o seguito da un rito simbolico, di per sé sempre più eloquente delle semplici parole, che avrebbe dovuto richiamare prontamente alla loro mente il senso della sua e loro missione e il grado di impegno, di sofferenza, di sacrificio che per l’uno e per gli altri avrebbe comportato. «Dopo aver cenato» prende un pane, lo divide e ne consegna un pezzo a ciascuno dei presenti, poi riempie una coppa di vino e la fa circolare tra di loro, precisando che non si tratta di un ulteriore alimento, ma del suo «corpo spezzato» e del «suo sangue» che di lì a poco sarebbe fuoriuscito dal suo corpo. Non era che un’anticipata, plastica raffigurazione della morte a cui stava andando incontro, e che essi avrebbero dovuto continuare a ripetere per tenere desto il senso e la ridondanza che la testimonianza del maestro avrebbe dovuto avere nella loro vita: «Spezzarsi e versarsi» per il bene delle moltitudini come egli si era impegnato a fare.

I simboli, come tutti i segni, non sono che una forma di linguaggio, parlano cioè alla mente di chi li compie o anche solo li osserva. Hanno, si dice in termini filosofici, una causalità intenzionale e non operativa. Se ne possono creare a non finire, ma non per questo la realtà subisce un qualche mutamento. Solo i fatti modificano la storia, consolidano o rovesciano le situazioni che si vogliono far vivere o abbattere. Le parole, i segni, i riti stanno a indicare perché e come lo si debba fare, ma se rimangono tali, se non sono seguiti o preceduti dalle operazioni, non sono che trastulli, giochi qualsiasi.

Le implicazioni sopraggiunte

Pur con tutto ciò, è avvenuto quasi subito (vedi i testi della «istituzione eucaristica» nei sinottici e in Paolo) o poco dopo (la Didaché) che anche la «cena» al pari della morte di croce venisse a prendere un significato nuovo.

Dal piano storico si passa a quello sacro: la scena del Golgota viene a ricollocarsi all’interno del santuario, il tavolo attorno al quale Gesù si era trovato con i discepoli si trasforma in un altare, e i riti che erano rivolti ai discepoli affinché non dimenticassero il loro impegno per il bene delle moltitudini vengono elevati verso l’alto, verso l’Altissimo, per placarlo dei torti ricevuti dagli uomini e ottenere il suo perdono e i suoi favori.

Così il rito commemorativo era diventato celebrativo, il suo valore provocatorio o profetico è ora solo consolatorio, e i partecipanti se ne stanno ad ascoltare sermoni più o meno edificanti e cantano inni di lode e ringraziamento al Signore, mentre i poveri, gli infermi, in una parola i «molti» bisognosi di aiuto rimangono fuori ad aspettare invano chi venga in loro soccorso. Così la liturgia eucaristica si è trovata caricata di un valore indebito perdendo di vista quello inteso da Gesù.

Questa singolare metamorfosi, che fa di un gesto simbolico un evento reale, si è verificata verosimilmente a motivo di una lettura affrettata, impropria, delle parole pronunciate da Gesù nella cena d’addio – «questo è il mio corpo», «questo è il mio sangue» – intendendole in senso univoco, cioè di identificazione fra il soggetto (dimenticando che il verbo «è» nell’originale ebraico manca il pane e il vino) e i rispettivi predicati (il «corpo» e il «sangue»),.

E visto che tale espressione mette in rapporto fra di loro realtà diverse, è più logico supporre che più che una identificazione voglia solo segnalare un semplice avvicinamento, un richiamo, un ricordo di una cosa (il corpo) con l’altra (il pane).

Ciò che sorprende è che abbia finito per prevalere la lettura più improbabile, per non dire più inverosimile (quella dell’identificazione per cui il pane diventa veramente corpo e il vino realmente sangue) su quella linguisticamente più sicura (quella della comparazione). In tal modo Gesù non avrebbe lasciato ai suoi un memoriale della sua morte, ma se stesso, fattosi «misteriosamente presente», come afferma la liturgia eucaristica, «sotto» le specie del pane e del vino, cosa che la teologia medioevale (Tommaso d’Aquino) chiamerà «transustanziazione».

Il «sacrificio della messa»

E così da queste libere «supposizioni» filologiche (una gratuita lettura delle parole «dopo» la cena) e teologiche (la reinterpretazione in senso sacrificale della morte di croce) subito è nata la teoria della «presenza reale» e quindi la dottrina del «sacrificio eucaristico» parallelamente a quella della croce. Con ciò, il rito che voleva essere una «rappresentazione» diventa una «ripetizione», la riattualizzazione della morte di croce, non cruenta certo, ma non per questo fittizia o apparente, bensì reale.

Un rito (la «messa») è diventato così la ripetizione nel tempo della morte di Gesù in croce, ricolmo dello stesso valore salvifico che ha avuto la ipotetica «immolazione» avvenuta sul Golgota. Ma è qui il problema: come si fa a immaginare che prima Dio possa essersi trovato in una irreparabile rottura, meglio inimicizia, con le sue creature, con quelli che egli nei nuovi tempi non solo chiama o presenta ma ritiene proprio «veri figli» (1Gv 3,1)? E se ciò – l’eventuale inimicizia – dovesse per assurdo essere vera, come si può pensare che per cancellarla Dio possa richiedere la morte di un innocente che per di più ha proclamato suo figlio prediletto?

Ma oltre ciò, che valore oggettivo possono avere gli stessi riti sacrificali, nati dall’immaginario religioso di tutti i popoli, che hanno considerato i loro dei alla stregua delle autorità terrene e hanno creduto possibile conquistarne la benevolenza e la protezione con suppliche, donativi, offerte? Tutti stratagemmi a cui si sono affidati anche gli israeliti e dopo di loro gli stessi cristiani, nonostante che Gesù avesse detto alla donna di Sicar che sbagliavano sia i samaritani che immolavano vittime sul monte Ebal che i giudei, che lo facevano sul monte Sion, perché Dio «si adora solo in spirito», che è l’unico vero modo per onorarlo (Gv 4,23-24).

Certo, si può affermare quello che si vuole, ma se non si adducono le prove, in questo caso biblico-teologiche, non si rischia di parlare a vanvera? Ma come si fa a pensare che comuni alimenti e piccoli gesti (lo spezzamento di un pane e il versamento di un po’ di vino in un calice), pur accompagnati da parole che per quanto speciali non sono che suoni vocalici, siano capaci di commuovere Dio e di strappargli tutte le grazie di cui si può avere bisogno per sé e per chiunque altro, in primo luogo i defunti? Non sarà che alla fine le nostre messe, più che ottenere una pioggia di grazie, vadano ad alimentare un cumulo di illusioni?

«Intimismo eucaristico»?

La pietà cristiana, a ragione o a torto, è fondamentalmente, o almeno prevalentemente eucaristica. Tutto ruota intorno alla presenza di Gesù nel sacramento dell’altare, quindi nella partecipazione alla messa domenicale, alla «comunione», alle visite al santissimo sacramento, alle ore e quarant’ore di adorazione e riparazione eucaristica, per non parlare degli istituti religiosi (i «sacramentini») che si propongono di sostenere e diffondere il culto eucaristico.

Senza l’eucarestia la Chiesa e le chiese cattoliche in particolare si trovano prive di un protagonista vivo e operante tra le loro file, mancano di un riferimento, di un interlocutore sempre pronto ad ascoltare e soccorrere chiunque si rivolga a lui. Gli stessi edifici sacri diventano freddi, vuoti, non interessanti.

Il cristiano può senz’altro incontrare Gesù, intrattenersi a parlare con lui già rileggendo i Vangeli, riandando alla sua esperienza, ricordando i tratti della sua testimonianza; ma i fedeli sono stati abituati a rapportarsi direttamente con lui, a mettersi in relazione con la sua persona, a inginocchiarsi davanti al suo tabernacolo, a esporgli confidenzialmente il loro amore insieme alle proprie pene e non sembrano disposti a rinunciare a tutto ciò.

Si è parlato di «intimità divina» ma potrebbe egualmente chiamarsi «intimismo», che è l’approdo in cui la «devozione» invita a rifugiarsi per trovare conforto nelle prove della giornata e della vita. La medicina parla di «effetto placebo», cioè di palliativi che, pur inefficienti sul piano clinico, sul piano psicologico possono arrecare un sollievo all’infermo. Non potrebbero essere tali anche le forme e i linguaggi che molte religioni propongono ai loro adepti?

Naturalmente nessuno vuole sconsigliare, tanto meno condannare, tutto questo programma spirituale, poiché l’incontro con Gesù, in qualsiasi modo avvenga, è sempre benefico, salutare. In senso quasi analogo Paolo confida ai Filippesi che non si rammarica se «alcuni predicano Cristo con spirito d’invidia» e altri «con intenzioni non rette» «credendo di causargli afflizione» e conclude «purché Cristo si annunzi non importa come» (Fil 1,18).

Una massima che potrebbe valere anche per le devozioni eucaristiche, ma il quesito di fondo sembra rimanere; se cioè i riti messi in atto (la liturgia eucaristica) rispondano all’intento che Gesù si è proposto nel lasciare ai discepoli il memoriale della sua passione, in cui il verbo principale non è tanto «celebrate» quanto «fate»!

Si possono compiere le cerimonie più attente, accurate, devote e il più solenni possibile, anche spettacolari come è dato vedere a volte in certi luoghi con una straordinaria partecipazione di popolo e di personalità, ma se queste cerimonie non sono precedute, accompagnate o seguite da opere di bene, non equivalgono forse a quei suoni di bronzo o tintinnio di cembali di cui parla l’apostolo ai Corinzi (1Cor 13,1)?

Il vero posto della cena

Ma l’eucarestia, nonostante tutti i fraintendimenti a cui è andata incontro, è con ragione, e deve rimanere tale, il centro, il cuore della chiesa e della vita comunitaria. Solo che non deve perdere, nel caso dovrebbe recuperarlo, il suo primo, vero, originario significato. Quello inteso da Gesù nel proporla ai suoi discepoli quale invito, stimolo, a tenere desto, nel cuore e nella mente di quanti vogliono mettersi al suo seguito, il senso della sua e della loro missione, che non si realizza nel mettere in scena quel complesso di riti, suoni e canti che riempiono le liturgie festive o feriali, bensì nel tentativo di verificare fino a che punto si è in grado di mettere in gioco la propria vita per il bene materiale e spirituale dei propri simili.

Un programma veramente arduo, del tutto scomodo, una lezione sempre difficile ad apprendersi e più ancora a mettere in atto. Le motivazioni per accettarla, condividerla nei fatti oltre che nelle parole, non sono poi tante. A rigore ce n’è una sola, quella lasciata dal profeta Gesù di Nazaret.

Egli ritiene di averla appresa dai suoi «colloqui» con lo Spirito di Dio (Lc 4,18) che l’esortava, oltre che ad amare il Signore del cielo e della terra, proposta che si ritrova in ogni forma di religiosità, ad accordare la stessa benevolenza, e sempre «con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente» (Mt 22,37-40), anche al «prossimo», che non è solo il parente o il connazionale, ma qualsiasi essere umano e, cosa inaudita e forse inedita, buono o cattivo che sia, quindi anche il «nemico».

La testimonianza di Gesù è veramente sbalorditiva, unica. Pur nato e vissuto in un villaggio di pura fede giudaica, quindi in un contesto ristretto, chiuso, quasi razzista (basti ricordare l’ostentazione con cui Paolo all’occasione declina le sue attribuzioni etniche; cfr. Rm 11,1; 2Cor 11,22), egli sa rivolgere, dando prova di grande forza d’animo e coraggio, le sue attenzioni e le sue predilezioni a quanti fanno parte della famiglia umana che incontra sul suo cammino, ebrei e greci, galilei e samaritani, giusti e peccatori.

Quasi espressione «personificata», «incarnata» della divinità, egli è passato in mezzo al suo popolo e a quello dei territori circonvicini predicando la compassione, l’amore, il perdono senza restrizioni e riserve di alcun genere. Ha osato proporre, per non dire imporre, a quanti desideravano diventare suoi discepoli, la generosità e l’altruismo a tutti i costi, anche nei confronti di chi non li meritava ma ne aveva egualmente bisogno.

Un impegno insolito, certo non facile, per non dire eroico, mai pienamente convincente perché le voci contrarie suggerite dalla pigrizia e dall’egoismo sono sempre in agguato. Per questo occorre mettersi spesso ad ascoltare e riascoltare la proposta di Gesù, anche ogni giorno e persino più di una volta al giorno per apprenderla meglio, per diventarne maggiormente convinti e pronti a metterla in atto.

Ecco la vera ragione delle celebrazioni eucaristiche. Esse si collocano su questo piano propedeutico e pratico. Per questo possono essere frequenti, anche quotidiane, perché l’amore al prossimo, anche se è un «amico», ancor peggio se è un «nemico», non è mai scontato e richiede lunghe riflessioni e prolungate meditazioni per poterlo far diventare la scelta della propria vita. 

Un programma che caratterizza la vocazione cristiana poiché costituisce il proprio, lo specifico, della medesima, ma che rischia di vanificarsi quando l’eucarestia diventa una celebrazione per onorare Dio, il quale non ha bisogno e non ha mai chiesto nulla per la sua gloria ma aspetta solo, quasi con ansia, che si aiutino le sue piccole e povere creature a crescere, a essere felici e in pace. Il cristianesimo è unico proprio per queste sue dimensioni non religiose ma umanitarie. In nome di Dio chiede di dare tutto ma, ecco il difficile, non a lui – che non ci si deve stancare di ripeterlo, non manca di alcunché – ma a pro degli uomini, degni o indegni che siano. 

Torino,2017.9 San Rocco, lettera di ORTENSIO DA SPINETOLI, redazione finale di  Fredo Olivero