I Vangeli  dell’infanzia:  mito o realtà? Una lettura alternativa

Lectio  di   don  PAOLO SCQUIZZATO
(30.11.2016 e 14.12.2016 Chiesa san Rocco ore  17.30)

 

Incipit Lc 1, 26

Nazareth è il luogo dell’accadere di Dio.

La ‘visita dell’angelo/Dio’,accade a Nazareth e non a Gerusalemme. A questo vada aggiungersi che pare assodato che Gesù sia anche nato a Gerusalemme!

E questo è assurdo, letteralmente ‘cosa mai sentita’: «Da Nazareth può venire qualcosa di buono?» dice Natanaele a Filippo (Gv 1, 46). E questo perché è Gerusalemme il luogo ove ‘tutti là sono nati’ (Sal 87).

Si comincia così a intravedere il lento passaggio che compirà Gesù, ossia quello dalla religione  alla fede.

Gerusalemme è il luogo della religione: attraverso l’osservanza, l’ottemperanza della Legge, si compie la possibilità di vivere il legame con la divinità. Il Tempio è proprio il luogo dove l’uomo, a determinate condizioni cultuali e religiose appunto, è messo nella condizione di legarsi (religio) al suo Dio.

Gerusalemme-Tempio è simbolo della religione tout-court. Il tempio, con tutto il suo armamentario religioso, è possibilità, mezzo di comunione. Ecco, Gesù è venuto a scardinare questa concezione che sia una religione, un tempio, un apparato di osservanze e credenze a poter assolvere il compito della comunione con Dio.

Gesù lo ripetere pure alla samaritana in Gv 4: «Credimi, donna, è giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre. 22Voi adorate quel che non conoscete, noi adoriamo quello che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. 23Ma è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori  adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il  Padre cerca     tali adoratori. 24Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito   e verità».

Non sarà mai la religiosità a salvare, ma l’esperienza del divino in sé. (Jager). Ogni religione è un mezzo e mai un fine per l’unione con Dio. Neanche il cristianesimo. Neanche la Parola di Dio, i sacramenti, l’eucaristia, la confessione… Nulla è indispensabile per la comunione con Dio. Come fosse forte questa idea ascoltiamo dei passaggi dell’AT:

«Il Signore ti ha fatto dichiarare oggi che tu sarai il suo popolo particolare, come egli ti ha detto, ma solo se osserverai tutti i suoi comandi» (Dt 26,18)«Il Signore ti renderà popolo a lui consacrato, come ti ha giurato, se osserverai i comandi del Signore, tuo Dio, e camminerai nelle sue vie» (Dt 28, 9) (Sarebbe interessante leggere i passi delle benedizioni e maledizioni di Dt 28, 1ss.; Lv 26, 14).

Nazareth diviene così il luogo della fede, nel senso che non è più l’uomo il soggetto che deve “fare per”, chiamato ad ottemperare dettami divini, ma è il luogo della grande povertà, ossia lo spazio in cui un Altro agisce e compie proprio in virtù di tale povertà. Possiamo definire Nazareth come uno spazio di vuoto.

E ‘vuoto’ non è assenza di, ma un vasto oceano di energia gravida di possibilità, come il mistero   del sunyata (vacuità) nel Buddhismo (Boff- Hathaway).

Una volta che crolla tutto ciò cui ci si aggrappava per considerarsi vivi, tutto diventa possibile. Il vuoto è proprio questo spazio di non-presunzione per l’accadimento di Dio.

“La guerra più dura è la guerra contro se stessi, bisogna arrivare a disarmarsi.

Ho perseguito questa guerra per anni ed è stata terribile, ma ora sono disarmato, non ho più paura di niente perché l’amore scaccia il timore; sono disarmato della volontà di avere ragione, di giustificarmi squalificando gli altri.

Non sono più sulle difese, gelosamente abbarbicato alle mie ricchezze; accolgo e condivido, non ci tengo particolarmente alle mie idee, ai miei progetti; se uno me ne presenta di migliori, o anche di non migliori ma buoni, accetto senza rammaricarmene.

Ho rinunciato al comparativo.

Ciò che è buono, vero, reale è sempre per me il migliore. Ecco perché non ho più paura.

Quando non si ha più nulla, non si ha più paura.

Se ci si disarma, se ci si spossessa ci si apre a Dio che muove tutte le cose e allora Egli cancella il cattivo  passato e    ci    rende   un    tempo    nuovo    in    cui    tutto    è    nuovamente   possibile”. (Atenagora)

Il Vangelo si compie infatti a Nazareth, la bella notizia si fa  presente  a  Nazareth:  «La  bella notizia è annunciata ai poveri» (Lc 7, 22). E poveri son proprio questi che non credono che la loro religiosità possa ottenere il legame con Dio, semplicemente perché è già dentro di loro. Infatti: la bella notizia qual è? Dio è Amore (1Gv 4, 8) preveniente, immeritato, gratis, incondizionato che si dona non virtù di una condizione previa. Dio non è l’amore che “ti ama se”, ma che “ti ama e  basta”. A prescindere. E questo possono comprenderlo solo i poveri, proprio perché non hanno  nulla da poter vantare, meritare, ostentare.

A Nazareth, a fare esperienza dell’amore gratuito e preveniente è Maria, la povera di Nazareth. Una ragazzina insignificante, che vive in un villaggio insignificante. Cosa poteva vantare questa dodicenne dinanzi al suo Dio? Qualcuno dirà il suo essere vergine. Ma Maria dirà nel Magnificat: ‘ha guardato l’umiltà della sua serva’ non  la verginità della sua serva, per cui occorrerà fermarsi  sul tema della verginità con occhi diversi. Ma di questo tratteremo più in là.

A Gerusalemme vi erano uomini – maschi! – che avevano un pedigree di tutto rispetto per ‘attirare’ l’azione di Dio. Ma la misericordia, cominciamo col dire, è attratta dalla miseria, non dalla ricchezza. L’amore non si attira, Dio non è provocato, ossia chiamato fuori di sé come un oggetto   di conquista.

Maria nel testo dice: ha guardato l’umiltà – ma il termine umiltà è ancora molto moralistico, un qualcosa di umano, come se Maria ce l’avesse fatta a essere umile. Letteralmente il testo parla di ‘tapinosità’, l’essere tapina: la miseria, la nullità della sua serva. Tepeinòs in greco significa di  bassa condizione, abietto, depresso.

Dio è la presenza che riempie assenze: il vuoto di cui sopra.

Quindi  la  storia  cambia,  quando  escono  di  scena  Gerusalemme  e  la  ricchezza  religiosa,      la religiosità, il merito.

“Beati i poveri in spirito” (Mt 5, 3) è l’inizio della felicità.

È interessante che tutti gli evangelisti ricordino la cosiddetta purificazione del tempio di Gerusalemme (Gv 2, 13ss; Mt 21, 12s.; Mc 11, 11.15-17; Lc 19, 45-46)

La bella notizia che Gesù è venuto a portare è proprio questa: all’origine di te stesso sta un Dio che riversa il suo amore al di là del tuo commercio religioso con lui. Qui sta il significato della purificazione del tempio. È finita l’epoca del do ut des, proprio di ogni religione, antica o moderna che sia.

Si pensi inoltre a Lc 18, 9ss., Il fariseo e il pubblicano al tempio.

Dio si fa presente a Nazareth, ad una vergine chiamata Maria, dice il testo.

Ora cosa si debba intendere con questa verginità di Maria, non è il momento di discuterne. C’è da credere che non sia una mera questione sessuale. Dovessimo fermarci alla parola, parténon ci si dovrebbe limitare a tradurre con giovane donna, giovane in  età da marito,  atta al matrimonio,  come traduzione dell’Almah ebraico di Is 9, 5.

Ma cosa vuole dirci con questa verginità l’evangelista? Per l’accadere di Dio nell’uomo – in questo caso in Maria ma in ogni uomo – non è questione di sforzo ‘naturale’, Dio non accade in noi, come conseguenza di un atto umano, non perché è stato posto un atto ‘a priori’, non come frutto di una prestazione personale. Infatti Maria dirà ‘non conosco uomo’- perché Dio possa essere presente in me. La logica infatti è proprio questa: per essere madre, perché nasca una vita in sé, occorre il concorso di un uomo. Ma per la vita di Dio non occorre concorso umano. Se non quello della consapevolezza: presa di coscienza di una vita già presente.

Ecco allora che siamo giunti a definire la fede: accoglienza, o meglio disponibilità, della presenza e quindi dell’agire di Dio in me. E perché questo possa inverarsi è necessaria la mia non-azione, il  mio non vantare atti meritori. Proprio come Maria: per l’accadere di Dio in lei non necessita concorso esterno.

La fede è accadimento nella propria povertà.

L’unico ‘sforzo’ richiesto è – potremmo dire – non opporre resistenza.

Nazareth, è dunque non un luogo, ma uno status esistenziale, un’esperienza di vita.

Nazareth è la vita quotidiana che si fa disponibilità all’agire di Dio in sé, attenzione assidua, costante consapevolezza del Dio in sé che reclama solo di poter sbocciare!

«Fa’ in modo che Dio sia grande in te», diceva Eckhart. Ecco la grande sfida del cristianesimo.

Maria ha permesso a Dio di diventare grande in lei; acconsentendo a questa azione di Dio in sé, è diventata grande lei stessa: si è dilatata da diventare pienamente se stessa, è sbocciata. Il testo dell’incipit del Magnificat dovrebbe essere tradotto così: La mia vita si ‘espande-allunga’. Il verbo usato è megalùnei da magalùno, che significa sì esaltare, magnificare, ma anche espandere e allungare.

Nel vuoto interiore (verginità), Dio ha trovato lo spazio sufficiente e necessario per poter crescere. La nostra povertà è il luogo in cui Dio può diventare grande in noi.

Cos’è dunque il Natale? O per meglio dire: cosa si verifica vivere il Natale? Un ricordo avvenuto 2000 anni fa? O non si tratta forse della nascita di noi stessi?

La nostra vita cos’è se non un lento cammino di costruzione di sé, di continua ri-nascita? E questo avverrà attraverso la nostra umanizzazione, incarnazione, sino a diventare perfetti come Dio   Padre

(Mt 5, 48), dove perfetto2 va inteso nella sua accezione letterale, nel senso di compiuto, maturo, giunto a pienezza. Se al termine della nostra vita siamo giunti alla costruzione di noi stessi, siamo diventi pienamente umani, e in ultima analisi divini. Cristo.

“Mia madre mi ha messo al mondo una volta, certo, certo. Ma io mi sono partorita di nuovo un milione di volte” (Sarah Levine).

Si diventa se stessi umanizzandoci. Don Giorgis soleva dire: «Fa’ come Dio, diventa uomo”.    “Non si dovrebbe celebrare la nascita di Cristo una volta all’anno, ma ogni giorno, perché Egli rivive in ognuno di noi. Gesù è nato e vissuto invano se non abbiamo imparato da lui   a

regolare la  nostra  vita  sulla  legge  eterna  dell’amore pieno.  Là  dove  regna  senza idea di vendetta e di violenza, il Cristo è vivo.

Allora potremmo dire che il Cristo non nasce soltanto un giorno all’anno: è un avvenimento costante che può avverarsi in ognuna delle nostre vite. Quando la legge suprema dell’amore sarà capita e la sua pratica sarà universale, allora Dio regnerà sulla terra come regna in cielo.

Il senso della vita consiste nello stabilire il Regno di Dio sulla terra, cioè nel proporre la sostituzione di una vita egoista, astiosa, violenta e irragionevole con una vita di amore, di fraternità, di libertà, di ragione. Quando sento cantare “gloria a Dio e pace in terra agli uomini di buona volontà” mi chiedo oggi come sia reso gloria a Dio e dove ci sia pace sulla terra.

Finché la pace sarà una fame insaziata, finché noi non saremo riusciti a rinascere come uomini illuminati dallo Spirito, a instaurare con le persone rapporti autentici di comunione da cui siano estranei i sorrisi forzati, l’invidia, la gelosia, la falsa cortesia, la diplomazia, finché non avremo come senso della vita la ricerca della verità su noi stessi, del giusto, del bello, finché non saremo capaci di spogliarci dell’inautentico, di ciò che abbiamo di troppo a spese di coloro che non hanno niente, finché continueremo a calpestare i nostri sogni più belli e più profondi, il Cristo non sarà mai nato.

Quando la pace autentica si sarà affermata, quando avremo sradicato la violenza dalla nostra civiltà, solo allora noi diremo che “Cristo è nato in mezzo a noi”. Allora non penseremo tanto ad un giorno che è un anniversario, ma ad un evento che può realizzarsi in tutta la nostra vita.

Se dunque si augura un “buon Natale” senza dare un senso profondo a questa frase, tale augurio resta una semplice formula vuota” (Mahatma Gandhi).

Lectio Lc 2, 1-20

Con Gesù abbiamo la rivelazione dell’essenza stessa di Dio: Misericordia che ama di un amore gratuito, indipendente cioè dal nostro comportamento e che per questo immeritato. Questo è il Vangelo, cioè la buona notizia comunicata da Gesù attraverso la sua parola e la sua stessa vita: Dio è Padre che ci ama al di là della nostra condotta, dei nostri meriti, di quello che abbiamo fatto o di ciò che potremo combinare.

Gesù avrebbe pagato caro questo messaggio; infatti al suo tempo (ma in molti casi ancora oggi) vigeva l’idea di un Dio il cui atteggiamento verso di noi dipende dal nostro comportamento morale, secondo il più scontato principio di giustizia retributiva: se siamo buoni e facciamo le cose a lui gradite, Egli ci ama; se pecchiamo, se facciamo il    male, se lo rinneghiamo e lo tradiamo, allora lui ci rifiuta, anzi ci castiga. Ebbene, se ragioniamo in questo modo, per noi il Vangelo non sarà mai buona notizia, ma un codice di leggi a cui attenerci per conquistarci l’amore.

Ma, come abbiamo contemplato guardando a Giuda, più la pozzanghera è profonda, più acqua può contenere: dove è abbondato il peccato ha sovrabbondato la grazia (cfr. Rm 5,20).

L’amore di Dio non è attratto dalle virtù degli uomini, dai meriti, delle prestazioni religiose, dalla bontà, da una condotta irreprensibile, dalla santità. La misericordia di Dio è piuttosto attratta, come una calamita, dalla nostra miseria.

Nel Vangelo, l’idea antica e incompleta di Dio è testimoniata in particolare dai farisei, dagli scribi, dai sacerdoti, insomma, da chi detiene il potere religioso; da coloro che arriveranno ad eliminare Gesù, appunto perché ha presentato un Dio “altro”, inaccettabile, impensabile, impossibile. Ma l’idea che questi contemporanei di Gesù avevano di Dio spesso non è molto distante dalla nostra.

Non è difficile riconoscersi, oltre che in Giuda, anche in questi pii religiosi zelanti. Perché un  Dio da servire nella bontà, nella carità, con le preghiere, con i sacrifici, con  le  eucarestie  (pensando di portarlo così dalla nostra parte) è un Dio che si concede a chi lo merita. Un Dio del commercio insomma, sensibile al do ut des di ogni  religione.

Quindi il passo importante da compiere è giungere ad una vera immagine di Dio: questa è la conversione. A seconda di chi è Dio per me, mi comporterò di conseguenza nella vita.

Se Dio per me è il giudice severo che elargisce vita solo a chi se lo merita, ai suoi amici che ce la fanno, allora farò di tutto per meritarlo. Ma un amore meritato è un amore comprato. E se Dio per me è un giudice che premia i buoni e castiga i cattivi, io, suo figlio, nella mia vita non potrò che comportarmi così come vedo fare dal Padre, ovvero premiando chi mi farà del bene e punendo chi mi farà del male.

Ma se per me Dio è Padre e misericordia, che accetta tutti e non rifiuta nessuno, ed è amore, anzi è dono a chi gli ruba la vita, allora comincerò ad amare i nemici e vorrò instaurare nel mondo un altro modo di vivere, fatto di perdono, di misericordia, di accoglienza, di dono a chi fa violenza.

Chi è il mio Dio? A quale padre appartengo, di chi mi riconosco figlio? Rispondere a queste domande vuol dire giungere a sapere chi sono io, alla mia vera identità. Io sono, mi comporto e vivo nel mondo a seconda dell’idea di Dio che abita in me.

Il brano del Vangelo di Luca che abbiamo letto è importante per approfondire la nuova e vera idea di Dio che Gesù è venuto a testimoniare.

Per capire la portata di questo brano, dobbiamo comprendere chi erano i pastori al tempo di Gesù.

Anche in questo caso dobbiamo liberarci da un’immagine fuorviante, legata magari all’aura romantica dei nostri presepi, pieni di pastorelli con l’agnellino in braccio che vanno lieti verso la grotta. Al tempo di Gesù i pastori erano dei disgraziati, la feccia della società, una sorta di “paria”. Si diceva, in ambito religioso, che quando il Messia avesse fatto la sua comparsa sulla terra i pastori sarebbero stati tra i primi a essere fatti fuori.

Nella sinagoga si faceva catechesi con domande e risposte; il maestro diceva: «Perché il regno di Dio tarda ad instaurarsi?». Risposta: «Perché ci sono i dazieri (pubblicani), le prostitute, i   pastori».

L’esistenza di questa triade di peccatori era considerata un impedimento all’avvento del regno di Dio.

Restiamo colpiti, perciò, nel considerare come Gesù abbia mostrato la sua misericordia principalmente verso i pubblicani – prendendone addirittura uno, Levi, al suo seguito (cfr. Lc  5,27-32) –, le prostitute – tanto da dire che ci precederanno nel regno dei cieli (cfr. Mt 21,31-32) – e i pastori, come ora vedremo. Le tre categorie che secondo la mentalità dei puri avrebbero tardato l’avvento del Messia sono proprio quelle a cui il Messia si rivolge!

Nel Talmud – un commento della Scrittura che nella tradizione israelita vale quanto la Parola di Dio, ed è considerato tanto importante da venire ancora prima dei profeti – è scritto che i genitori non devono insegnare ai figli il mestiere del pastore, perché è un lavoro da ladri. E i pastori erano ladri veramente, perché talmente sottopagati e sfruttati da dover rubare per sfamarsi. In quanto ladri, erano esclusi dal tempio, quindi anche dalla relazione con Dio e perciò dalla possibilità della salvezza; erano casi disperati insomma, considerati meno delle bestie. Ancora il Talmud afferma:

«Se cadono in un fosso, si tirino fuori tutti tranne i pagani e i pastori».

Il brano che abbiamo letto apre il Vangelo, quindi introduce alla buona notizia, che è rivolta dall’angelo ai pastori.

I pastori si vedono raggiunti da Dio. Possiamo ritenere che anch’essi,  pur  nella  loro  condizione, conoscessero la Parola di Dio e sapessero – come tutti gli uomini religiosi – che in essa, quando Dio si fa presente agli uomini, fa fuori i malvagi benedicendo i buoni. Ecco perché il testo dice: «Essi furono presi da grande timore» (v. 9b); consapevoli della propria indegnità, temono che Dio li voglia distruggere. Invece accade una cosa incredibile: avvolti di luce nella gloria del Signore, come in un abbraccio, ricevono l’annuncio che il Messia, il Dio incarnato, il Salvatore dell’uomo è venuto proprio per loro, lontani, maledetti, disgraziati, ladri e violenti: «Oggi, nella casa di Davide, è nato per voi un salvatore» (v. 10).

La visione dell’ambiente religioso del tempo si ribalta. Non esistono più uomini impuri, lontani da Dio, e soprattutto Dio non chiede agli uomini di purificarsi per essere degni di accoglierlo. Ma poiché la salvezza s’è fatta presenza, chi l’accoglie diventa puro, ovvero figlio perso nell’abbraccio del Padre.

Questo brano, aprendo il Vangelo di Luca, ne costituisce la cornice insieme all’episodio che lo conclude: il brano del cosiddetto “buon” ladrone, un delinquente sulla croce (cfr. Lc 23,40-43). Dentro questa cornice drammatica si manifesta chi è Dio, la misericordia. Un amore che non è attratto dalle virtù, dal merito della creatura, ma solo dalla sua necessità.

La misericordia non è dono concesso a chi lo chiede: in tutto il Vangelo, Gesù è il perdono donato prima che gli venga chiesto o gli sia mostrato un segno di pentimento.

L’atto di misericordia di Dio è sempre previo a tutto, anche alla richiesta di perdono.

Al ladrone sulla croce viene concesso immediatamente il riposo del cuore (il paradiso), semplicemente per il suo «Ricordati di me quando entrerai nel tuo regno» (Lc 23,42), che non è una richiesta di perdono, né una dichiarazione di pentimento. Un altro disgraziato, Zaccheo, raggiunto dal dono immeritato di Cristo (cfr. Lc 19,1-10), cambierà vita – si pentirà – solo dopo aver  ricevuto il perdono.

Nella visione che ci viene naturale (che è in fondo la visione religiosa farisaica) pretendiamo che per ricevere il perdono occorra cambiare vita; pensiamo di dover diventare buoni, santi e bravi, per poter ricevere l’amore di Dio. Invece, è proprio ricevendo il suo amore che all’uomo è dato diventare buono e santo.

È l’esperienza vissuta da san Paolo. Per ventisette anni aveva pensato, da buon fariseo, che una vita irreprensibile avrebbe attirato su di lui la gloria di Dio. Invece, solo quando cade a terra sulla strada di Damasco, lambendo la povere della terra, ovvero in un atto di estrema povertà, riceve la gloria di Dio cominciando così a vivere un’esistenza rinnovata, divenendo il grande apostolo di Cristo.

La grazia si riceve, non la si produce.

Per i farisei occorreva purificarsi per accostarsi a Dio. Come se, essendo malati, per poter far avvicinare il medico occorresse prima guarire. Invece Gesù dice: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori perché si convertano» (Lc 5,32).

E, successivamente, aggiunge che l’Altissimo «è benevolo verso gli ingrati e i malvagi» (Lc 6,35). Quest’affermazione, inaccettabile per i farisei, non rende forse perplessi anche noi? Perché anche in noi sorge una domanda, tremenda, perché profondamente destabilizzante: «Se Dio non premia i buoni, che senso ha dunque comportarsi bene?».

Da che mondo è mondo, la religione insegna come attirarsi la benevolenza di Dio conducendo una vita irreprensibile. Religione viene da religo, religere: legare assieme, e ti dice che con le opere, il sacrificio, la bontà, la vita etica leghi Dio a te. Invece Gesù è venuto a dirci che Dio non si lascia legare dalle tue opere. Il Dio di Gesù Cristo non è più il Dio della religione.

Gesù ha inaugurato la via della fede, cioè il prendere coscienza che il fatto fondamentale nell’esistenza credente è accogliere nella propria povertà assoluta il Dio che viene, indipendentemente dalle opere meritorie. Questa è la buona notizia. Il cristianesimo è una fede, non una religione.

Molta vita cristiana si è consumata nelle opere, nel fare, nella vita morale irreprensibile; ma invece di avere dei buoni cristiani, abbiamo partorito generazioni di persone problematiche, di frustrati, pensando che il cristianesimo fosse ancora un darsi da fare qui sulla terra alla conquista del cielo, come improba scalata ad una sempre illusoria torre di Babele.

L’avventura cristiana altro non è che accoglienza d’un Dio che ci ama per quello che siamo: figli, al fine di trasformarci, se lui vuole, secondo il suo cuore.

Il Vangelo è la buona notizia che Dio è dalla nostra parte. Con Gesù di Nazareth, Dio si è messo al fianco di chi non si è mai sentito all’altezza, degli ultimi, di chi non si è mai sentito meritevole di Dio, perché mai ce l’ha fatta a stare al passo di Dio.

Ci sono ancora cristiani che dicono: «Come fa Dio ad amarmi per quello che sono? Non può, con tutto quello che ho fatto!». Ebbene, è lì che dobbiamo proclamare il Vangelo: «Dio ama te, proprio perché sei così. Perché se tu fossi buono, irreprensibile, pulito, Dio non ti amerebbe». Non perché non vuole, ma perché non può!

Osserviamo  ora  la  reazione  dei  pastori all’incredibile  annuncio  ricevuto:  da paria  della società diventano missionari, glorificano e lodano Dio (v. 20). Il Signore non ha chiesto loro di pentirsi, non li ha invitati a fare penitenza per i loro peccati. Li ha amati e li ha resi liberi. I pastori hanno sperimentato l’amore immeritato, gratuito: questa è la grazia.

La legge, i comandamenti, le norme non hanno mai cambiato il cuore di nessuno. La legge condanna, l’amore trasforma. Se vogliamo aiutare qualcuno a trasformare il suo cuore, non serve dargli delle regole: sarà la misura con cui lo ameremo che lo cambierà.

 

Redazione di Fredo Olivero 2016.12 san rocco torino